Vento umido femminile che porta pioggia e prosperità nutrendo piante di mais e gonfiando d’acqua e di gamberi le lagune della costa oceanica, vento secco maschile che con raffiche a 200 km orari rivolta i Tir che attraversano l’autostrada panamericana, solleva le canoe dei pescatori e la polvere depositata sulle macerie dall’ultimo, terribile, terremoto.
Nell’Istmo di Tehuantepec, i venti animano i racconti mitici degli Ikojts, si trasformano gli antenati in esseri potenti e vitali: bambini prodigiosi, fulmini, santi volano alla velocità delle nubi segnando il paesaggio, costruendo identità. Una mito-logica d’altrove, negli stessi territori, narra di energie infinitamente consumabili, di territori immaginati vuoti, di venti incanalati in reti elettriche per rinverdire con crediti virtuali (“buoni-carbone”) il nero liquido dell’economia fossile, estratto poco più in su, dal fianco destro delle viscere messicane.
Conduco la ricerca nel territorio eterotopico dell’Istmo di Tehuantepec, dove la storia lunga un secolo di estrazione e raffinazione del petrolio (“patrimonio nazionale”) convive ultimamente con la liberalizzazione energetica di stampo green. Leggo questi processi dalla prospettiva locale del pueblo di San Dionisio del Mar, dove una parte della popolazione Ikojts si è opposta con successo al progetto di un ennesimo parco eolico, tra i tanti che negli ultimi vent’anni hanno progressivamente mutato il paesaggio e circondato le lagune. I concetti di limite, sostenibilità, valore e finanziarizzazione della natura sono qui utilmente messi alla prova, al fine di comprendere da un lato gli esiti politici, a diversi livelli di scala, prodotti dagli assemblaggi tecnico-ecologici del bio-capitalismo, dall’altro per riflettere su quali siano le strade percorribili per realizzare la convivenza tra le necessità della conversione energetica e gli evidenti fallimenti della stessa osservati sul piano concreto della pratica situata.